lunedì 22 febbraio 2010

MALATTIA E MORTE

Mio caro Marco,
sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d'accordo per incontrarci di prima mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me e la descrizione del corpo d'un uomo che s'inoltra negli anni ed è vicino a morire di un'idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m'ha curato in sua assenza.

E' difficile rimanere imperatore in presenza di un medico. Difficile anche conservare la propria essenza umana: l'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m'e venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, arnico sicuro e a me noto più dell'anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta... il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene e in tutti i modi e non starò a lesinargli le cure necessarie. Ma ormai non credo più, come finge ancora Ermogene, nelle virtù prodigiose delle piante, nella dosatura precisa di quei sali minerali che è andato a procurarsi in Oriente.

E' un uomo fine; eppure m'ha propinato formule vaghe di conforto, troppo ovvie per poterci credere. Sa bene quanto detesto questo genere d'imposture, ma non si esercita impunemente piu di trent'anni la medicina. Perdono a questo mio fedele il suo tentativo di nascondermi la mia morte.

Ermogene è dotto; è persino saggio; la sua probità è di gran lunga superiore a quella d'un qualunque medico di corte. Avrò in sorte d'essere il piu curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura; le gambe gonfie non mi sostengono più nelle lunghe cerimonie di Roma; mi sento soffocare. E ho sessant'anni.

Non mi fraintendere: non sono ancora così a mal partito da cedere alle immaginazioni della paura, assurde quasi quanto quelle della speranza e certamente assai piu penose. Se occorresse ingannarmi, preferirei che lo si facesse ispirandomi fiducia; non ci rimetterei più che tanto e ne soffrirei meno. Non è detto che quel termine così vicino debba essere imminente; vado ancora a letto, ogni sera, con la speranza di rivedere il mattino.

Nell'ambito di quei limiti invalicabili di cui t'ho fatto cenno poc'anzi, posso difendere la mia posizione palmo a palmo e persino riconquistare qualche pollice di terreno perduto. Ciò non pertanto, sono giunto a quell'età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Dire che ho i giorni contati non significa nulla; è stato sempre così. E' così per noi tutti. Ma l'incertezza del luogo, del tempo e del modo che ci impedisce di distinguere chiaramente quel fine verso il quale procediamo senza tregua, diminuisce per me col progredire della mia malattia mortale. Chiunque può morire da un momento all'altro, ma chi è malato sa che tra dieci anni non ci sarà più. Il mio margine d'incertezza non si estende più su anni, ma su mesi. Le probabilità che io finisca per una pugnalata al cuore o per una caduta da cavallo diventano quanto mai remote; la peste pare improponibile; la lebbra e il cancro sembrano definitivamente allontanati. Non corro più il rischio di cadere ai confini, colpito da una ascia caledonia o trafitto da una freccia partica; le tempeste non hanno saputo profittare delle occasioni loro offerte e sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei annegato.

Morirò a Tivoli o a Roma; tutt'al piu a Napoli. E una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via o la centesima? Il problema è tutto qui. Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell' arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte.
(Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar)